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Mimose in fiamme: un anno dopo

missconosciute

L’anno scorso scrivevamo sul nostro blog “Mimose in fiamme”, un post per l’8 marzo particolarmente accorato e ispirato – difficile da eguagliare nel 2021 – in cui dichiaravamo che per i diritti delle donne tanto era stato fatto ma tanto era ancora da fare

Erano i primi di marzo del 2020, il confinamento era un’ombra inquietante ma larvale – anche se solo pochi giorni ci separavano dal lockdown – e pochissimi potevano prevedere quello che stava per succedere e l’impatto che avrebbe avuto (globalmente, individualmente, socialmente, economicamente, culturalmente e via dicendo) e quanto esso avrebbe riverberato proprio sui diritti delle donne, sulla loro vita quotidiana, sulla loro prospettiva futura.

Donne e lavoro

A un anno dall’inizio della pandemia il bilancio è tragico: il rapporto Istat del dicembre 2020 ci dice che questo autunno su 101.000 posti di lavoro perduti 99.000 – il 98%  – erano ricoperti da donne che si sono trovate così private di reddito.

I settori più colpiti sono stati infatti quelli in cui le donne sono maggiormente impiegate “tradizionalmente”: il commercio, la manifattura, la ristorazione e l’ospitalità, la cura domestica (colf, baby-sitter, badanti). 

Sulle donne – disoccupate e occupate – è inoltre piovuto un carico non da poco: a loro, in maggioranza, è toccato in sorte di provvedere alla cura di figli e parenti fragili in tempi di lockdown, scuole chiuse, didattica a distanza, emergenza sanitaria.

In un recente articolo sul New York Times Silvia Federici spiega come la rafforzata percezione del lavoro di cura come esclusiva delle donne in tempi emergenziali – un vero e proprio “secondo turno” da conciliare con il primo, il lavoro a tempo pieno o parziale e nel caso del lockdown addirittura simultaneamente  – ha posto nuovamente in primo piano quanto il dibattito pubblico così come quello femminista abbiano trascurato questo aspetto della vita delle donne con effetti nefasti: ora esse si ritrovano maggiormente escluse dalla vita pubblica e dal mercato del lavoro. Per le donne le chance di trovare un lavoro sono crollate in questi mesi, lo abbiamo detto – e si ritrovano missconosciute nel loro ruolo domestico, atavicamente considerato “naturale” e mai straordinario sforzo fisico e psicologico non remunerato.

Una volta di più, nel mezzo di una crisi sanitaria globale, le donne hanno fatto doppiamente le spese di tale stortura (non solo in Italia): sono state licenziate oppure costrette a prendere il doppio dei congedi parentali rispetto ai padri dei loro figli (quando non se li sono visti negare) o a lavorare con orari e salari ridotti e hanno dovuto sostenere la zavorra del menage familiare, provvedendo alla cura di bambini, anziani e uomini adulti perfettamente sani, rafforzando il pregiudizio – fonte di violenza infinita – che la donna deve sempre essere disponibile al sacrificio di sé.

Anche quelle che hanno continuato a lavorare non se la sono passata meglio: in ambito scientifico, dati alla mano, è evidente che durante il lockdown (ma pure dopo) le ricercatrici e accademiche con prole hanno prodotto meno papers dei loro colleghi padri (la cui produzione, negli stessi mesi, è addirittura aumentata) e che quindi il loro apporto alla ricerca sia stato giocoforza minore.

Si viene cancellate anche così.

Parallelamente, molti lavori che la “segregazione occupazionale” ha storicamente delegato alle donne hanno esposto molte di loro al contagio da Covid-19: pensiamo ad esempio alle infermiere o alle molte impiegate in “lavori essenziali” socialmente poco prestigiosi e mal retribuiti. Per un’esaustiva e inquietante rassegna dell‘impatto devastante del Covid sull’occupazione femminile in Italia potete leggere questo articolo di Roberta Carlini.

I diritti e la rilevanza delle donne si eliminano in tutti questi modi e se i governi – perlomeno occidentali – non prenderanno con forza atto dell’impatto sociale di questa crisi occupazionale e adotteranno le doverose contromisure (che sarebbero poi atti di civiltà e provvedimenti di welfare che aspettiamo da anni) torneremo indietro di decenni. 

Le forze che si battono perché le istituzioni considerino l’emorragia dell’occupazione femminile una tragedia sistemica e non uno dei molti effetti collaterali di una crisi economica sono tante: vogliamo ricordare a questo proposito le iniziative di chi si spende ora più che mai per una politica di genere che sia tale e che realizzi una parità di fatto, anche in tempi così difficili, come l’iniziativa europea Half of it e, in Italia, Giusto Mezzo, che chiede che la metà dei finanziamenti del Recovery Fund vengano investiti in occupazione femminile e misure per la parità di genere, per ridimensionare quella che si configura come una vera e propria She-cession globale.

Il 4 marzo Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha presentato una direttiva sulla trasparenza a tutela della parità salariale. Incrociamo le dita e speriamo che tra qualche anno la battaglia possa dichiararsi vinta. Ricordiamo infatti che in Europa le donne guadagnano in media il 14% in meno dei loro colleghi uomini a parità di ruolo e le disuguaglianze aumentano con la progressione della carriera (paradossalmente ma non troppo, il divario salariale uomo-donna è più profondo tra manager che tra operai).

La situazione italiana è ben riassunta qui. Questi disincentivi paiono suggerire che le donne debbano essere rimesse al loro posto e le allontanano ancor di più dalla già remota e agognata leadership (vi dice niente il caso dei ministri #tuttimaschi che il PD ha proposto al Governo Draghi, cercando di salvare la faccia – senza riuscirci – avanzando solo candidature femminili per i ruoli di sottosegretari?).

Femminicidi e violenza

E se, come si diceva, il lockdown ha penalizzato in modo devastante l’occupazione femminile, sul fronte “interno” non è andata meglio: le violenze domestiche in Italia sono state meno denunciate a causa della convivenza forzata imposta dal confinamento ma le richieste d’aiuto arrivate al numero di emergenza 1552 nei primi mesi del 2020 sono aumentate del 73% al periodo gennaio-aprile 2019. Le violenze contro le donne sono aumentate a livello globale – si parla di “pandemia ombra” –  e nel nostro paese negli ultimi mesi si è registrato un sostanziale calo degli omicidi e un’impennata dei femminicidi: il 2020 è stato l’anno in cui l’incidenza femminile negli omicidi è stata del 40,6%, la più alta di sempre, e da inizio 2021 ad oggi è stata ammazzata da un partner, ex partner o familiare maschio in media una donna a settimana.

Sempre sul fronte nazionale si è parlato tanto in estate dei gruppi Telegram “dedicati” al revenge porn e sul tema si è tornati in autunno con il caso della giovane maestra d’asilo piemontese licenziata per aver inviato nude pic al suo ex fidanzato che le ha diffuse in varie chat, tra cui quella in cui era inserito il padre di un alunno che ne ha parlato alla moglie, la quale ha ben deciso di rivolgersi alla preside che a sua volta ha ritenuto che la mossa giusta da fare fosse cacciare la ragazza e quindi far pagare a lei il reato del suo ex (grazie al cielo la preside è stata condannata di recente). 

Nel frattempo la polizia francese scrive (e poi ritira) questo Tweet

A gennaio 2021 a Savona è stato arrestato un 22enne incell suprematista che, con un gruppo di seguaci su Telegram, preparava atti di terrorismo in stile Breivik da rivolgere contro immigrati, ebrei e femministe (stranamente non menzionava omesessuali ma crediamo si sia trattata di una svista!). 

Due giorni fa al parco di Villa Gordiani a Roma una ragazza è stata aggredita e stuprata in pieno in giorno.

Ma certo, passiamo il nostro tempo a discutere sulla questione malposta (in malafede) da politici, giornalisti e commentatori (l’opinione pubblica) del “politicamente corretto” e a tacciare di ideologismo chiunque abbia posizioni valoriali che non contemplino la misoginia. Prego.

Evidentemente le violenze di genere sono a tutti gli effetti anche un problema di salute (pubblica, privata, sociale) e dunque probabilmente trascurabili, come ci insegna la ricerca medica e farmaceutica.

E allora che si fa? Si fa finta che le donne non esistano.

DONNE E VACCINI

Un esempio recente? Gli effetti collaterali dei vaccini anti-Covid delle varie case farmaceutiche produttrici in via di somministrazione non sono stati approfonditi in fase di ricerca sulle donne incinte (e in generale i trial di ricerca scientifica statisticamente includono una bassissima percentuale di donne incinte. Ergo, la scienza tralascia di considerare questa trascurabile componente della popolazione mondiale, come si legge in un articolo del New Yorker).

Leggiamo sul sito del Ministero della Salute: “le donne in gravidanza e allattamento non sono state incluse nei trial di valutazione dei vaccini Pfizer-BioNtech mRNA (Comirnaty), Moderna e AstraZeneca per cui non disponiamo di dati di sicurezza ed efficacia relativi a queste persone.”.

Ottimo. E quindi le donne incinta come faranno? Boh, chissenefrega. Tanto quante saranno in tutte il mondo?! Poca roba. E poi sono solo in attesa di un figlio, che vuoi che sia. Se aspettano un bambino per 9 mesi, potranno ben pazientare per il vaccino. E se sono disabili o fragili? Ah, perché le disabili possono fare sesso e avere figli?!

E NOI COSA FACCIAMO?

E in tutto ciò noi che facciamo? Facciamo Mis(S)conosciute.

Proviamo a raccontare storie di autrici poco note, poco lette, tradotte, pubblicate, scoperte ma la cui opera è per noi patrimonio letterario che tutti dovrebbero conoscere. Lo facciamo con il nostro podcast ma lo facciamo anche con la nostra attività sui social e ora con la newsletter che parte oggi, in una data simbolica, naturalmente, e che vuole essere uno spazio ulteriore per confrontarci con ciò che amiamo e con ciò che ci sta a cuore: la scrittura, la letteratura scritta da donne (ma anche da uomini), l’espansione inclusiva del canone letterario, la (ri)scoperta di ciò che è stato dimenticato e trascurato, i diritti, l’uguaglianza che vorremmo venisse presto o tardi raggiunta, con un’integrazione e comprensione profonda delle differenze e non con un livellamento su uno standard che troppo spesso coincide con quello che vogliamo superare. 

La speranza, forse utopica, che guida la nostra militanza in questo progetto è che prima o poi si possa andare oltre la questione di genere (e razza e classe, per fare una citazione “forte”), essere prevalentemente persone, portatrici delle proprie specificità, certo, e dunque non per questo discriminate né discriminanti. 

Vorremmo insomma che alcuni temi tradizionalmente femministi diventassero davvero di dominio pubblico e condiviso e che non si guadagnassero la ribalta solo in virtù di titoli volutamente provocatori che spesso prestano il fianco a interpretazioni tendenziosi (si veda il recente caso editoriale di “Odio gli uomini” di Pauline Harmage, contestato e posto da molti all’indice addirittura prima della pubblicazione, naturalmente senza entrare mai nel merito dei contenuti).

La nostra è una battaglia “minore” ma fondamentale come lo è la lettura: a questo proposito ci rifacciamo alla lezione di Bernardine Evaristo che sostiene che il canone (e i suoi confini per ora angusti) riverberi la sua influenza su tutto: educazione, editoria, produzione letteraria, percezione culturale, strutturazione della società. Non possiamo accettare una storia della letteratura che faccia a meno delle donne (e delle minoranze) e proviamo a ricordare i loro nomi, a ripercorrere le loro storie e le loro scritture con il nostro lavoro e, in questo modo, ad esprimere anche noi stesse, in un gesto che è voce e presuppone un ascolto e che è liberatorio perché di rado ci viene concesso lo spazio per essere chi siamo senza timore.

Cerchiamo di operare all’insegna della pluralità dei punti di vista, convinte che il dibattito attorno alle idee di un movimento aporetico e multiforme come il femminismo non possa e non debba limitarsi ai confini e ai riferimenti di una “community” ma avere il coraggio di andare oltre, di invischiarsi nella ricerca della complessità, di immergersi nello studio e nella ricerca storica, di indagare in prima istanza il pensiero filosofico che ne è la matrice e in seconda battuta la sua traduzione fenomenica nella manualistica factual che in questi anni ha avuto molto successo (giustamente) ad uso dei neofiti e degli (ancora) inconsapevoli, così come in altre forme di divulgazione editoriale e non solo.

Proviamo a fare questo facendo sicuramente molti sbagli ma tentiamo ugualmente, tenendo a mente quanto sia fondamentale analizzare sempre il contesto in cui ci muoviamo – perché è in esso e su di esso che concretamente possiamo agire ora – e senza perdere di vista il valore della differenza: mentre ieri – galeotto Sanremo –  infuriava sui social e sulla stampa nostrana la polemica sulla normativizzazione arbitraria della declinazione esclusivamente maschile della professione “direttore d’orchestra” con alzate di scudi sacrosante da parte di tante attiviste, leggevamo un articolo del 2018 su Chimamanda Ngozi Adichie in cui si rilevava come per le femministe nigeriane il fervore occidentale sui femminili professionali fosse incomprensibile per chi, come loro, si era confrontata per tutta la vita con una realtà in cui anche i più elementari diritti delle donne erano inesistenti o negati.

Il femminismo è questo: è la coscienza della compresenza di più piani della realtà contemporaneamente e della validità di istanze apparentemente in contrasto.

Questa è la sua forza e preservandola, senza assecondare assimilazioni e cavalcate d’onde estemporanee del potere e dei suoi esponenti, potremo rivoluzionare la formula che regola la società e la realtà in cui viviamo a beneficio di chi verrà dopo, di chi raccoglierà il testimone del tempo.


Qualche buona notizia: 

  • il 20 gennaio 2021 Mrs. Kamala Harris fa il suo giuramento come 49a vicepresidente degli Stati Uniti d’America.
  • i Golden Globes per la prima volta nella loro lunga storia hanno candidato 3 registe nella categoria “Miglior Regia”: Emerald Fennell con “Promising Young Women”, Regina King per “One Night in Miami” e Chloé Zhao per “Nomadland”, che ha vinto il premio.

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