Da due mesi ormai siamo costantemente martellati da un unico grande mantra: restiamo a casa. Per quanto spesso pessimo nei toni e neppure troppo sensato se non affiancato dall’altro grande mantra del distanziamento sociale (in tutti i luoghi e in tutti i laghi), lo slogan mirava e mira tuttora ad allentare le maglie delle nostre reti di conoscenze, sfavorire la circolazione del virus, “appiattire la curva” di contagi per non far collassare le terapie intensive, e tutto ciò che a questo punto sappiamo molto bene. Tuttavia esistono varie categorie per le quali quest’appello è stato una doccia fredda, impossibile da mettere in pratica e devastante per la propria quotidianità.
Non si tratta semplicemente di persone con difficoltà economiche. Come ormai dovrebbe essere ben noto, la gran parte delle violenze fisiche e sessuali sulle donne è perpetrata da partner o ex partner. “La casa non è un posto sicuro per tutte”, come sottolinea Non una di meno nella sua ultima campagna. La casa, per chi ha un compagno violento, non è un rifugio, ma una prigione angosciosa e certa in cui rinchiudersi pur di sfuggire a un contagio incerto.
La pandemia è arrivata come un fulmine in un cielo già di per sé piuttosto tetro. Si dice spesso che le donne che arrivano a denunciare non siano che la punta di un enorme iceberg. Ci facciamo scoraggiare da ragioni psicologiche, abbiamo vergogna di noi stesse, pensiamo di poter perdonare “uno sbaglio”; oppure non sappiamo a chi rivolgerci, ci hanno detto che spesso andare in caserma è inutile, abbiamo paura di venire trattate come colpevoli e non come vittime. Eppure, per fortuna, qualcuno che denuncia c’è: secondo i dati della rete D.i.Re, 2867 donne si sono rivolte ai loro centri antiviolenza durante il lockdown. Di queste, la maggioranza erano donne già seguite e costrette a trascorrere in casa col maltrattante il periodo di quarantena. 806 (28%) sono nuove segnalanti. Il dato è in calo, ma purtroppo era prevedibile: le donne hanno difficoltà a chiamare i centri antiviolenza di nascosto. Spesso trascorrono tutta la giornata con i figli e/o con il partner, che magari è a casa dal lavoro; non escono neanche più a fare la spesa. Non solo: nei nosocomi sono stati sospesi i codici rosa, che permettevano ad alcune associazioni di entrare a contatto con le vittime (che spesso per paura del contagio non mettono proprio piede in ospedale, anche in presenza di lesioni). Gli unici strumenti a portata di segnalazione sono YouPol, la app della Polizia di Stato, e la “mascherina 1522”, che può essere richiesta in qualunque farmacia ed equivale a un SOS.
Un ulteriore problema riguarda la capienza dei centri. Se una donna denuncia, molto probabilmente sarà costretta ad abbandonare l’abitazione e non è detto che ci sia qualcuno pronto ad ospitarla, soprattutto in un periodo del genere. Con i continui tagli al piano nazionale e il mancato arrivo di fondi straordinari, i centri sono costretti ad autofinanziarsi attivando crowdfunding come quello di Differenza Donna. Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, ha rilanciato l’ipotesi dell’istituzione di un fondo ad hoc, perché “combattere la violenza contro le donne significa liberare energie e risorse per la società nel suo insieme. La violenza di genere è un fenomeno strutturale legato alla cultura e all’organizzazione sociale. Per questo è una lente per leggere tutto il resto. Oltre a potenziare ancora le strutture di protezione, occorre investire sui percorsi di autonomia delle donne che hanno subito violenza (…). La vera prevenzione resta concepire una società il cui le donne siano libere di essere diverse dagli uomini, libere dal potere maschile”.
Serve un cambiamento strutturale, e serve adesso: aspettare ancora un’ipotetica fine dell’emergenza non è più possibile.
(L’immagine in copertina è di Monica Lasagni @monicatrequarti)
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