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LIBERTÀ: SOSTANTIVO FEMMINILE “PLURALE”

Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana.
Ada Prospero Marchesini Gobetti  (1902–1968) partigiana, scrittrice, traduttrice e giornalista

Oggi è quasi d’obbligo ricordare quelle donne straordinarie, conosciute, missconosciute e completamente ignote, anonime, che ci hanno permesso, grazie al loro coraggio, impegno, sforzo e dedizione, di essere qui a festeggiare il 75esimo anniversario della Liberazione d’Italia. 

Ci poniamo, innanzitutto, una domanda che non avrà mai una risposta: senza l’apporto straordinario delle partigiane, la Resistenza sarebbe stata la stessa? 

Senza tutte quelle bambine, ragazzine, giovani e donne di ogni età che si sono assunte la responsabilità di essere staffette, contrabbandiere di messaggi, oggetti proibiti e della stampa clandestina, senza le infermiere, dottoresse, cuoche e sarte, senza le massaie che nei cesti di frutta e verdura trasportavano armi, senza le combattenti pronte ad agire in prima linea al fianco dei partigiani uomini, forse la storia di oggi sarebbe stata un po’ diversa. 

Se guardiamo un po’ di numeri (FONTE dati ANPI) il contributo che le donne italiane hanno dato alla Liberazione è impressionante:

  • 35mila partigiane combattentI
  • 20mila patriote
  • decine di migliaia di aderenti ai GDD (Gruppi di Difesa della Donna)
  • 623 morte in combattimento
  • 1500 deportate nei lager
  • 4500 arrestate, torturate e violentate.

Quindi oggi in questo spazio virtuale che stiamo dedicando alle donne Mis(S)conosciute degne di nota che più ci hanno colpito, vogliamo dare un volto, una voce, dello spazio e delle parole alle storie di alcune partigiane italiane i cui nomi possono risultare anonimi e privi di significato all’orecchio di un ascoltatore che non sappia chi sono, ma che è nostra convinzione meritino di essere conosciute, capite e, seppur a distanza di decenni, ascoltate. 

La Staffetta Partigiana

Maddalena Cerasuolo (Napoli 1920 – 1999)

Maddalena Cerasuolo

La data era quella del Settembre funesto, quando l’arma tedesca fucilava i suoi uomini e deportava giovani e vecchi.  Ma il ventotto dello stesso mese il popolo insorse contro il massacro e il sopruso, e c’ero anch’io dietro la barricata,ragazza piena di amor di patria. Trovai una mitraglietta e sparai, sparai, sparai contro le camionette e i carri armati …

Maddalena Cerasuolo

Maddalena Cerasuolo veniva chiamata da tutti Lenuccia. Nata a Napoli nel 1920, aveva appena 23 anni nel settembre del 1943, quando da operaia in un calzaturificio divenne una delle più coraggiose partigiane delle Quattro giornate di Napoli (27 al 30 settembre 1943). La città partenopea fu la prima città italiana a riuscire a liberarsi da sola, senza l’aiuto delle forze alleate, dagli occupanti nazifascisti.

La sua famiglia era molto numerosa e il padre Carlo, un cuoco, era uno dei più attivi militanti antifascisti del quartiere Stella, a ridosso del rione Sanità, dove vivevano. Maddalena, ispirata dall’esempio del padre, desiderosa di difendere la propria famiglia e soprattutto animata da un grande desiderio di sconfiggere l’oppressore e riconquistare la libertà e la dignità, si unì alla lotta partigiana dei napoletani.

Combatté in prima linea fianco a fianco con i partigiani della sua città, si offrì più volte volontaria per andare in avanscoperta nelle zone controllate dai tedeschi e non si tirò indietro davanti a nulla durante quelle quattro storiche giornate.

Dopo la Liberazione di Napoli, Lenuccia si impegnò affinché anche il resto d’Italia venisse liberato: entrò a far parte dei servizi segreti inglesi, la Special Force, assieme ad altri coraggiosi e valorosi partigiani, e lavorò con loro fino al 1944 a numerose missioni segrete come infiltrata, spia e paracadutista, partecipando a sbarchi sulle coste nemiche e a battaglie, affrontando ogni situazione con coraggio, intelligenza, astuzia e umiltà.

Dopo la guerra, Maddalena non ricoprì incarichi ufficiali né si dedicò alla politica, ma ritornò alla sua vita di sempre, si sposò ed ebbe dei figli a cui ha lasciato in eredità il racconto e il ricordo di quelle memorabili giornate.

Per il suo contributo nelle “Quattro Giornate di Napoli” venne riconosciuta partigiana il 24 maggio del 1946, e ricevette una medaglia di bronzo al valor militare nella cui motivazione si ricordava che:

“dopo aver fatto da parlamentare dei partigiani con i tedeschi al Vico delle Trone, si distinse molto nel combattimento che ne seguì. Nella stessa giornata coraggiosamente partecipò anche allo scontro in difesa del Ponte della Sanità, al fianco del padre, con i partigiani dei rioni Materdei e Stella” .

Il ponte da cui Lenuccia scacciò i tedeschi che ancora oggi sormonta il rione Sanità al centro di Napoli (comunemente conosciuto come Ponte della Sanità) porta dal 2011 il nome di Maddalena.

Renata Viganò (Bologna 1900-1976)

Sebben che Perché siamo donne. Paura non abbiamo

Renata Viganò
Renata Viganò

Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900, dove muore nel 1976. Tra queste due date ci passa una vita straordinaria, quella di un’infermiera, di una partigiana, di una scrittrice:, di un’emiliana: la sua vita.

Renata appartiene ad una famiglia borghese. Ama la letteratura fin da piccola: a 12 anni pubblica la sua prima raccolta di poesia, “La Ginestra in fiore”, e a 15 la seconda, “Piccola fiamma”.

Vorrebbe fare il medico ma per problemi economici di famiglia abbandona il liceo e inizia a prestare servizio come infermiera negli ospedali di Bologna, coltivando la scrittura nel poco tempo libero, collaborando con quotidiani e periodici.

«Io non sono nata dal popolo. Non ho avuto perciò il grande insegnamento di un’infanzia dura, di genitori premuti da lavori faticosi, da privazioni quotidiane. Ma la mia estrazione borghese non impedì che fossi portata a preferire le persone del popolo alla vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo».

Nei primi anni del fascismo si avvicina agli oppositori al regime: accetta di pagare 35 lire affinché uno di loro – che non ha mai conosciuto – venga rilasciato dalla prigione. Lui si chiama Antonio Meluschi e qualche tempo dopo diventerà il marito di Renata.

Così li descrive il poeta antifascista Roberto Roversi “Vivevano in una violenta ma sobria povertà per conseguenza delle idee di cui non avevano paura, eppure erano sempre così liberi, nuovi, giusti (e umani) a incontrarti, anche nella loro casa di via Mascarella”.

Con Antonio inizia la militanza politica e dopo l’armistizio dell’8 settembre la coppia si unisce alla Resistenza partigiana, assieme al figlio Agostino, che ha solo 7 anni.

Il nome da staffetta di Renata è Contessa. La sua zona d’azione è vasta: dalle valli di Comacchio a tutta la Romagna. Presta servizio come staffetta garibaldina e come infermiera, collaborando alla stampa clandestina, fino al 25 aprile 1945.

Negli anni della lotta di Resistenza Renata incontra Agnese, la partigiana contadina a cui si ispirerà per creare la protagonista del suo romanzo più celebre, “L’Agnese va a morire”.

L’Agnese nata dalla penna (e dall’esperienza di vita) della Viganò è una lavandaia delle valli di Comacchio, una contadina sposata con Palita, comunista dalla salute malferma che viene deportato dai nazisti.

Il marito viene ucciso e Agnese decide di dedicarsi alla causa antifascista arrivando ad aggredire il soldato tedesco Kurt, che ha sparato alla sua gatta. Si unisce alla Resistenza partigiana e si occupa di organizzare le staffette: per i compagni di lotta è una sorta di mamma combattiva e determinata.

Pochi giorni prima del trionfo degli alleati britannici sui tedeschi, Agnese viene catturata dai nazisti. Kurt la riconosce e il finale tragico è inevitabile. Di lei non rimane che “un mucchio di stracci sulla neve”.

«Magnifico stile misurato, sobrio, magnifici effetti di paesaggio…Da farsi. Da farsi. Da farsi». Così le scrive Natalia Ginzburg, redattrice di Einaudi, il 27 ottobre 1948 annunciandole la prossima pubblicazione con la casa editrice torinese. Il romanzo viene pubblicato nel 1949 e vince il Premio Viareggio.

La Resistenza e le donne che l’hanno fatta sono il cardine della vita personale e letteraria della Viganò: nel 1955 scrive “Donne della resistenza”, in cui ricorda le tante partigiane bolognesi cadute in guerra, e nel 1976 “Matrimonio in brigata”, raccolta di racconti partigiani.

Nel 1952 pubblica “Mondine”, una sorta di reportage realizzato tra le lavoratrici delle risaie della Lomellina, dedicato a Maria Margotti, bracciante e operaia morta durante uno sciopero agrario nel ferrarese a fine anni ’40.

Nel 1962 esce “Una storia di ragazze”, raccolta di racconti che mettono in luce la sottomissione femminile trasversale a tutte le classi sociali.

Nel 1976 Renata Viganò muore nella sua “rossa” Bologna, alcune settimana prima che al cinema esca il film de “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo. A interpretare la protagonista è Ingrid Thulin.

Nel 2019 è stata pubblicata da Minerva una graphic novel dedicata alla straordinaria storia di Renata: Renata Viganò. Con parole sue, con i disegni di Matteo Matteucci, colori e grafica di Alessandro Battara.

Per Renata, donna, partigiana, scrittrice, combattente per la Libertà: viva!

Ada Prospero Marchesini Gobetti  (Torino 1902–1968)

Non è vero che non c’è nulla da fare per voi ragazze. Poiché tutte potete partecipare alle battaglie che oggi in Italia si combattono in ogni campo per imporre il rispetto e l’applicazione della Costituzione. Affermando l’uguaglianza di tutti i cittadini senza nessuna distinzione, la nostra Costituzione garantisce implicitamente quelle che sono le vostre esigenze fondamentali: il diritto al lavoro e il diritto all’amore. S’impegna cioè a creare una organizzazione sociale in cui non esista incompatibilità tra le due cose; in cui una ragazza possa iniziare e seguire una carriera indipendente, esprimere le proprie capacità, inserirsi nel lavoro produttivo del paese, senza dover per questo rinunziare ad avere una famiglia o una casa, o senza dover inevitabilmente trascurare l’una o l’altra cosa; o senza doversi infine sottoporre, se vuole farle bene entrambe, a una fatica, una tensione di cui finirà presto o tardi col sentire le conseguenze.

Ada Prospero Marchesini Gobetti

Partigiana, scrittrice, traduttrice e giornalista: nata a Torino, sposò lo studente universitario antifascista Piero Gobetti, che morì di lì a poco, per mano dei fascisti, lasciandola con un bambino di pochissimi mesi, Paolo.

Molto amica di Benedetto Croce, viene da lui incitata a proseguire gli studi dopo la laurea in filosofia e a iniziare a tradurre dall’inglese. Negli anni precedenti l’8 settembre 1943 la casa di Ada Gobetti costituisce un punto di riferimento per l’antifascismo intellettuale e per gli ambienti legati al movimento Giustizia e libertà. Nel 1937 si risposa con Ettore Marchesini, tecnico dell’EIAR. Nel 1942 è tra le fondatrici del Partito d’Azione.

Attiva nella vita intellettuale dell’epoca, era a stretto contatto con la cerchia di intellettuali antifascisti ed entrò nella Resistenza, costituendo un primo nucleo di partigiani nella “borgata Cordola” di Meana di Susa.

Ada Gobetti fu tra le donne che collaborarono alla costituzione dei Gruppi di Difesa della donna. Le vicende che visse da quel momento in poi sono raccontate nel libro Diario Partigiano.

Dopo la Liberazione, prese la strada della politica (fu sindaco di Torino) e collaborò a riviste come Educazione Democratica e il Giornale dei Genitori (diretto poi da Rodari). Non dimenticò mai la scrittura, e negli anni ha pubblicato diverse opere, tra cui: Cinque bambini e tre mondi (1953), Non lasciamoli soli (1958), Dai quattro ai sedici (1960), Vivere insieme (1967), Educare per emancipare – Scritti pedagogici 1953-1968 (1982)

Joyce Lussu, nata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti (Firenze 1912 – Roma 1998)

Che fa una donna che si trova nell’occhio di una guerra terribile, organizzata e condotta dagli uomini, una guerra che ha bruciato tutti gli spazi del confronto civile e non lascia aperto che il confronto delle armi, nell’alternativa tra la complicità e la lotta, tra la schiavitù e la vita?

Joyce Lussu

I genitori di Gioconda erano nobili e inglesi per metà, intellettuali finissimi. Di entrambi, le rispettive famiglie pensavano fossero dei poco di buono. 

Porto San Giorgio, il paesino delle Marche dove Gioconda crebbe, era una sorta di “oasi socialista”: il nonno paterno però fu il primo dei fascisti del posto. 

Quando, per alcuni articoli scritti, il padre fu vittima di un’aggressione squadrista a Firenze, a Joyce e ai suoi non restò che fuggire con un sotterfugio oltreconfine, in Svizzera. Dopo molte peregrinazioni (tra cui quella in una scuola-collegio ispirata dai movimenti nonviolenti) e qualche anno a Heidelberg, allieva di Jaspers prima dell’ascesa nazista, accettò spesso a Napoli l’ospitalità clandestina di Benedetto Croce, che aveva visto in lei “qualche talento” ma non condivideva le sue idee fin troppo progressiste. 

La decisione di unirsi alla lotta clandestina di Giustizia e Libertà venne da sé e le cambiò la vita. Fu durante una di queste azioni di resistenza politica che incontrò Emilio Lussu, all’epoca esule dopo una fuga rocambolesca dal confino di Lipari, e se innamorò perdutamente.

Un amore profondo e totale è una cosa tanto perfetta, che ingenera subito una tempestosa insicurezza, una paura abissale di perderlo. Quando l’altro si allontana dai tuoi occhi, la fantasia galoppa, e ti fa immaginare che cosa significherebbe non rivederlo più; e quando ritorna, sembra che non ritorni mai abbastanza. Quando ero con Emilio, ero felice di una felicità assoluta e fragile come un cristallo sottile che rifletteva il sole; quando non c’era scrivevo delle poesie molto tristi.

Con Lussu si stabilì prima a Parigi, poi in Portogallo, poi in Inghilterra, dove fece addestramento da soldato; infine tornò in Italia, a Roma, sotto falso nome, per poter essere parte attiva della Resistenza armata.

Si offrì volontaria al CLN per attraversare il fronte e raggiungere gli americani, al fine di concordare il lancio delle armi ai partigiani: l’impresa le valse la medaglia d’argento al valor militare. Mentre il marito era ancora impegnato in azioni politiche, partorì in solitudine il figlio Giovanni. 

Finita la guerra non si rassegnò al ruolo della “moglie del Ministro”, ma si impegnò ancora nelle lotte per la condizione femminile. Dopo aver incontrato a Stoccolma il poeta turco Nazim Hikmet, incarcerato dal regime per le sue idee comuniste, ne divenne la traduttrice, pur non conoscendo la sua lingua, secondo il principio che fosse sufficiente che il poeta e il suo traduttore avessero in comune lo stesso posizionamento nei confronti della vita. 

Fu poetessa lei stessa e diede voce ai popoli vessati dal colonialismo: africani, albanesi, curdi. Alla morte del marito seguì un “ritorno alle origini” nel suo paesino delle Marche, dove la sua casa fu centro culturale e punto d’incontro tra persone di ogni estrazione (in onore anche alla filosofia che aveva guidato le scelte dei suoi genitori).

Riposa con Emilio Lussu presso il Cimitero Acattolico di Testaccio, a Roma.

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